«So esattamente di che cosa abbiamo bisogno: un letto con lenzuola di seta, una bottiglia di Dom Pérignon e un disco di Frank Sinatra», mi disse Marilyn. Ha fatto tutto lei: il giornale voleva mettere Marilyn in copertina, ma mi aveva chiesto un’idea: lei aveva chiaro in mente quello che voleva già al momento del nostro primo incontro.
A 27 anni, Douglas Kirkland ha avuto l’onore di scattare e parlare con la diva per eccellenza. Qui il racconto di quell’incontro speciale.
La sera dopo, era il 17 novembre 1961, la aspettavo con il mio assistente nello studio di Hollywood che avevo affittato per scattare: doveva arrivare alle 7 ma si presentò alle 9,30. Capii immediatamente la ragione del suo successo: era radiosa, sensuale, e molto seducente. Cominciai a scattare dall’alto, ma dopo pochi minuti Marilyn si mise seduta sul letto, si coprì il seno con le lenzuola, e chiese all’assistente di uscire: «Voglio restare sola con questo ragazzo: di solito funziona meglio». Continuai a scattare, usando la macchina fotografica come uno scudo, ma a un certo punto Marilyn disse: «Perché non vieni qui vicino a me?». A questo punto l’invito era esplicito.
Mi sono sempre chiesto perché non l’ho accettato. Certamente una ragione è che ad aspettarmi a casa c’erano la mia prima moglie e i miei tre figli. Ma credo anche che inconsciamente sapessi che tutta quella energia sessuale che si era creata tra di noi sarebbe rimasta nelle foto, se avessi continuato a scattare. Ora sono certo di avere fatto la cosa giusta. Alla fine mi sdraiai per terra di fianco al letto, e fu un po’ come se avessimo veramente fatto l’amore. Cominciammo a parlare della nostra vita: lei mi raccontò che si era sposata a 16 anni solo per fuggire all’affido presso una famiglia che non conosceva, io le dissi che avevo incontrato mia moglie al liceo.
Ho visto Marilyn tre volte in tutto, e ogni volta fu come incontrare una persona diversa. La prima volta, quando suggerì l’idea delle foto nuda nel letto, fu come incontrare una sorella: rideva molto, scherzava, mi pigliava in giro. La seconda volta, quando abbiamo scattato, era la superstar che il mondo intero desiderava. L’ultima volta, quando le ho portato le foto, era di cattivo umore, molto stanca. Indossava occhiali neri e un foulard a coprirle la testa. Misi le foto sul tavolo luminoso e lei mi chiese la lente per guardarle.
L’avevo dimenticata, e lei mi mandò a comprarla in un negozio che stava aperto di sera: «Piglia anche un pennarello e un paio di forbici», mi disse. Quando tornai guardò tutte le foto in cinque minuti, poi uscì dalla stanza e quando tornò, un paio di minuti dopo, non aveva più gli occhiali: «Ce ne sono alcune buone, ma queste non le voglio», disse, cominciando a mettere da una parte tutte quelle scartate. Poi prese le forbici e cominciò a tagliare le fotografie che non le piacevano. Subito dopo cominciò a selezionare le immagini in cui invece si piaceva, e tirò fuori quelle che preferiva. Guardarla era affascinante, era come assistere dal vivo al processo mentale che aveva portato quella ragazza di provincia a diventare Marilyn Monroe. A quel punto sorrideva: indicando la foto in cui abbracciava il cuscino, disse che era la sua preferita: «Questa ragazza mi piace perché è il tipo di donna con cui ogni uomo vorrebbe stare. La donna che anche un camionista vorrebbe portarsi a letto».
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